LA TEORIA DELLE DECISIONI

I manager prendono decisioni tutti i giorni. Esiste un modello?

Come possono essere suddivise le decisioni? Quali modelli si possono utilizzare per prendere decisioni valide?

Teoria delle decisioni

"I manager fanno molte altre cose oltre a prendere decisioni ma sono solo loro a prenderle. La prima competenza manageriale è, dunque, saper prendere decisioni in modo efficace", ha osservato Peter Drucker.

Come si prendono le decisioni e come si potrebbero migliorare è, dunque, un argomento di grandissimo interesse per gli operatori aziendali e per gli studiosi.

Un'intera disciplina, la teoria delle decisioni, mira a comprendere il processo decisionale dei dirigenti.
Si fonda, in gran parte, sull'idea, professata da alcuni esperti di business, secondo cui in determinate circostanze il comportamento umano sarebbe logico e prevedibile. Il principio ispiratore era che il processo decisionale si potesse razionalizzare e sistematizzare.

Partendo da questa premessa, furono sviluppati modelli per spiegare i meccanismi del commercio che, si pensava, si sarebbero potuti estendere a tutti i processi decisionali.

In linea generale, la letteratura manageriale definisce due diverse categorie di decisioni:

  • decisioni operative che attengono alla gestione quotidiana del business.
    Tipiche decisioni operative sono la determinazione dei livelli di produzione, l'assunzione di altre risorse umane o la chiusura di una determinata unità produttiva;
  • decisioni strategiche che attengono alla politica aziendale e alle scelte di lungo periodo.
    Una decisione strategica potrebbe riguardare l'ingresso in un nuovo mercato, l'acquisizione di un concorrente o l'uscita da un settore

Madan G. Singh, noto esperto di processi decisionali, preferisce, invece, una suddivisione più articolata dei livelli di decisione, che tiene conto di alcuni cambiamenti in atto nelle imprese.
Singh divide i decision maker aziendali in tre categorie a seconda delle decisioni che competono loro:

  • decisioni operative
  • decisioni tattiche
  • decisioni strategiche

Le decisioni operative, nella configurazione di Singh, sono quelle che vengono prese dal personale di front line. Nel loro insieme, gli operativi prendono ogni giorno migliaia di decisioni, in tempi rapidi e sulla base di informazioni concrete, come ad esempio rispondere ad un cliente che chiede informazioni su un prodotto.
Queste decisioni hanno, generalmente, una portata limitata e influenzano una gamma ristretta di attività.

Le decisioni tattiche e strategiche, per contro, sono più orientate al lungo termine. I dati che occorrono per prenderle sono molto più ampi, in quanto si estendono al di fuori dell'organizzazione e le informazioni che se ne traggono sono meno precise, meno aggiornate e più soggette a errori.

Le decisioni tattiche coprono alcune settimane o alcuni mesi e riguardano, ad esempio, il pricing di beni e sevizi e i livelli di spesa per la pubblicità e il marketing.

Le decisioni strategiche hanno un orizzonte temporale più lungo: da uno a cinque o più anni. In genere riguardano l'espansione o il ridimensionamento del business o l'ingresso in nuove aree geografiche o di prodotto.

Per affrontare le decisioni, i manager possono impiegare una vasta gamma di modelli, schemi di riferimento, strumenti e tecniche.

L'elemento comune a quasi tutti è il presupposto che le decisioni aziendali siano razionali. La teoria delle decisioni si fonda sull'assunto del management logico e trascura il ruolo dell'intuito o della percezione istintiva nel processo decisionale.

E' un approccio tipicamente occidentale. Le diverse culture aziendali ne usano altri, molto differenti.
I giapponesi, ad esempio, hanno sempre puntato sulla ricerca del consenso, il "ringi" anziché su una formula decisionale.

E' sempre più evidente che le migliori decisioni aziendali non sono strettamente razionali, ma la fiducia nella teoria delle decisioni continua a persistere. In effetti quasi tutti i testi e quasi tutte le teorie del management sono inestricabilmente legati all'idea della razionalità decisionale.
Il management strategico, per esempio, era un modello per lo sviluppo delle decisioni strategiche ma richiedeva un'enorme quantità di dati. Di conseguenza, i suoi seguaci si sono trasformati in cacciatori di dati anziché in bravi decisori perché le decisioni venivano rinviate in continuazione in attesa di altri dati che avrebbero dovuto garantirne l'assoluta qualità.
Nacque così l'espressione: "paralisi da analisi".

I modelli decisionali consentono di prendere decisioni adeguate e di apprendere dalle esperienze altrui.

Se applicati alla vostra situazione specifica, avrete automaticamente una risposta. Il pericolo, però, è convincersi che la soluzione fornita sia "la" risposta.

Incorporata in un software o enunciata da un manuale, la modellistica decisionale teorizza una sequenza di fasi logiche che comportano una serie di passaggi:

  • identificazione del problema
  • chiarimento del problema
  • priorità degli obiettivi
  • generazione di opzioni
  • valutazione delle opzioni
  • raffronto tra risultati previsti di ciascuna opzione e obiettivi
  • scelta dell'opzione che appare più idonea al raggiungimento degli obiettivi stessi

Questi modelli si basano su una serie di assunti in merito al comportamento che dovrebbero tenere le persone in determinate circostanze.
Tali assunti consentono ai matematici di sviluppare formule basate sulla teoria delle probabilità.
Gli strumenti decisionali includono, ad esempio, l'analisi costi-benefici per la valutazione delle diverse opzioni.

Uno dei modelli decisionali più utili e più conosciuti è quello sviluppato da Charles H. Kepner e da Benjamin Tregoe. Nel loro libro del 1965 intitolato: "The rational Manager", Kepner e Tregoe identificavano tre componenti principali per l'efficacia del processo decisionale:

  • la qualità della decisione sui fattori da soddisfare;
  • la qualità del processo di valutazione delle alternative;
  • la qualità della comprensione di ciò che possono produrre le diverse alternative

La tecnica Kepner-Tregoe si può sintetizzare così:

  • formulare i termini generali della decisione, specificando il livello organizzativo a cui va presa;
  • definire gli obiettivi e classificarli in "indispensabili" (must)e in "desiderabili" (want). Questi ultimi vanno poi ponderati su una scala di importanza relativa;
  • generare e valutare alternative. Se un'alternativa non soddisfa i criteri fissati per i must, va eliminata. Le alternative restanti vengono poi misurate rispetto ai want;
  • il valore di ciascuna alternativa si determina moltiplicando la somma dei punteggi per il valore ponderale. Quella che ottiene più punti è la prima scelta;
  • questa prima scelta viene esaminata per valutare i rischi meno quantificabili che comporta. Se tali rischi appaiono proibitivi, l'opzione verrà abbandonata e si prenderà in considerazione quella che segue immediatamente in ordine di preferenza

Veniamo ora al modello bidone della spazzatura.

Questo nome curioso fu attribuito ad un modello decisionale utilizzato in alcune organizzazioni e identificato per la prima volta da un docente americano di management, James March.

In termini semplificati, descrive un modello organizzativo in cui, di fronte a una decisione, i membri dell'organizzazione generano un flusso costante di problemi e di soluzioni che finiscono in gran parte nel bidone della spazzatura.

Solo una percentuale minima delle soluzioni che sopravvivono alla selezione viene incorporata nella decisione finale. Alla base di questo modello stanno le osservazioni di March sul comportamento organizzativo secondo cui chi lavora elle organizzazioni tende a sviluppare determinati corsi d'azione che divengono le soluzioni preferite dei loro sostenitori.
Di conseguenza, stando al modello, tutte le volte che si presenta un problema, gli individui cercheranno di imporre la loro soluzione preferita. Ciò influenza, a sua volta, sia il processo decisionale, sia l'output finale.

In ultimo, veniamo alle aziende giapponesi che hanno una visione decisamente alternativa del processo decisionale.

Il loro sistema, denominato ringisei, implica la circolazione preventiva delle proposte da parte dei collaboratori che le hanno sviluppate.
Questo sistema è una manifestazione del metodo bottom-up a cui sono abituate e costituisce probabilmente il più noto esempio di collettivismo decisionale nel mondo delle imprese.

In Giappone le decisioni aziendali sono sempre state promosse dal basso, anziché dall'alto. E' un processo di costruzione del consenso o di decisione attraverso il consenso.

Con questo sistema, qualunque cambiamento da apportare alle procedure, alla routine, alle tattiche e persino alle strategie viene suggerito da coloro che ne sono direttamente coinvolti.
La decisione finale viene presa al vertice dopo un approfondito esame della proposta ai vari livelli della gerarchia manageriale.

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L'accettazione o il rifiuto di una proposta è il prodotto del consenso a tutti i livelli.
Il ringi (richiesta di decisione) è la raccomandazione scritta di un determinato corso d'azione. Viene sottoposto ai superiori e ai reparti coinvolti finché non arriva ai decisori di massimo livello: se questi accettano, ne informano a cascata la struttura.
Questo sistema consente a tutti i dipendenti di partecipare alla determinazione della politica aziendale.

Quando il manager di livello inferiore o intermedio si trova di fronte a un problema e desidera proporre una soluzione, il responsabile del reparto (kacho) indice una riunione.
I componenti del reparto potrebbero concordare con quella soluzione ma se ritengono che occorra il pieno coinvolgimento dell'azienda o della funzione, il capo si consulta con il responsabile della funzione (bucho). Se il capo funzione è d'accordo, inzia la laboriosa attività di ricerca del consenso generale.

Tale processo prende il nome di newawashi, durante il quale si tengono numerose consultazioni e riunioni prima della stesura di un documento formale o ringi.
Si ricerca, anzitutto, un consenso generale tra coloro che saranno coinvolti direttamente o indirettamente nell'implementazione a livello di reparto.

Dopo altre riunioni, quando il reparto pensa di aver ottenuto l'assenso di tutte le persone coinvolte, inizia la procedura formale. Il promotore della proposta e i suoi colleghi, sotto la supervisione del capo reparto, scrivono un documento formale di richiesta, il ringisho, che illustra il problema e i dettagli del piano di soluzione, con allegato il materiale di supporto.
Il ringisho passa poi attraverso la gerarchia manageriale per ottenerne l'approvazione e ogni manager vi appone il proprio visto.

Se la proposta viene accettata in fase newawashi è molto difficile che venga contrastata o respinta nella fase ringi.

Il sistema ringi viene usato per essere sicuri che tutti gli elementi di dissenso siano stati eliminati nella fase newawashi. Garantisce che la responsabilità venga condivisa da tutti coloro che hanno apposto il proprio visto di approvazione.

Solo i manager da un certo livello in su sono autorizzati a scrivere un ringi perché si considera una raccomandazione al Top management su misure che non riguardano solo un reparto ma l'intera azienda.
Quando viene approvato un ringi, le nuove regole che incorpora costituiscono una decisione suprema che l'intera azienda deve mettere in atto immediatamente. Così, mentre occorre parecchio tempo per raggiungere la decisione definitiva su un ringi, una volta presa viene eseguita rapidamente perché tutti i soggetti coinvolti

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