LEAN MANAGEMENT: BACK TO BASICS

di Arnaldo Camuffo - Direttore Scientifico, Lean Enterprise Center of Italy, Fondazione CUOA

 





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In questo momento così drammatico e decisivo per molte imprese italiane, è il momento di tornare all'essenziale, di attingere fino in fondo alle risorse disponibili, di mettere in discussione modi di operare, convinzioni e idee consolidate senza però tradire le proprie origini e i propri valori di fondo.

In particolare, questo è il momento di superare l'arte del management come improvvisazione, di abbandonare le scorciatoie di certa mitologia su creatività e tradizione artigianale, di cambiare passo e di cimentarsi nell'applicazione del metodo scientifico al management. Abbiamo esempi di imprese che ci sono riuscite. Toyota prima fra tutte, ma non solo.
Queste imprese si caratterizzano per:

  • essere organizzazioni in cui le persone si comportano come "piccoli scienziati" aziendali;
  • operare attraverso un metodo (il metodo scientifico riassunto nel ciclo PDCA) che si articola nella proposizione di ipotesi che vengono testate sul campo;
  • usare un rigoroso processo di problem-solving;
  • stimolare lavoratori e manager a ogni livello a impegnarsi nella sperimentazione finalizzata al miglioramento.
  • Il by-product di questo sistema è lo sviluppo delle competenze delle persone nelle sue componenti professionali, relazionali e organizzative. Insomma un sistema che, mentre risolve sistematicamente i problemi, fa imparare alle persone come risolverli

E questo vale a tutti i livelli, da quello di vertice a quelli più operativi, e per tutte le imprese, da quelle multinazionali a quelle medie e piccole.

Concentriamoci dunque sull'essenziale, torniamo alle origini e impariamo da chi, nel corso della propria storia, è riuscito ad affrontare e superare sfide simili a quella attuale. Sì, perché la crisi attuale, con il suo greve fardello di aziende con i magazzini pieni, che non riescono a fare destocking, che hanno cicli troppo lunghi e flussi di cassa insufficienti a fare deleverage, non è la prima e non sarà l'ultima.
A tal fine, è illuminante una intervista concessa nel 1984 da Taiichi Ohno a Takahiro Fujimoto, collega presso l'università di Tokio, oltre che da anni compagno di ricerca e studi di chi scrive presso l'International Motor Vehicle Program del MIT.
In tale intervista, recentemente pubblicata nel volume The birth of Lean. Conversations with Taiichi Ohno, Eiji Toyoda, and other figures who shake Toyota Management (a cura di Koichi Shimokawa e Takahiro Fujimoto, 2008, Cambridge, MA, The Lean Enterprise Institute), Taiichi Ohno ricorda:

Quando ero studente, tutti davano per scontato che il Giappone non era il posto giusto per fabbricare automobili. Era circa il 1930. Gli USA avevano alta produttività e alti salari. In Giappone, la produttività era bassa e così pure i salari. Ma la crescita della produttività degli USA rallentò verso la fine degli anni '30 e da allora in poi, come ci accorgemmo più tardi, solo i salari continuarono a crescere.

A quell'epoca lavoravo come caporeparto alla Toyoda Boshoku (l'azienda tessile "madre" del gruppo) fino all'entrata in guerra. La nostra produttività a quel tempo non era male, ma la Dainippon Spinners (ora Unitika) ed alcuni altri concorrenti utilizzavano sistemi produttivi completamente differenti dal nostro e la loro produttività era ancora più elevata.

Imparammo molte cose studiando e confrontando i sistemi produttivi utilizzati dalle diverse imprese. Di grande utilità fu, in particolare, capire l'importanza di assicurare che i processi a monte garantiscano livelli di qualità elevati per quelli a valle. Questo concetto è alla base del total quality control che è la stessa cosa del principio zero-difetti, ovvero del Toyota Production System. Si tratta di denominazioni diverse per lo stesso principio base.

Imparammo anche l'importanza di non confidare sulle abilità personali degli operai e su sistemi di lavoro artigianali. Imparammo invece a progettare sistemi produttivi in cui il lavoro era standardizzato, in cui tutti operavano nello stesso modo, il migliore conosciuto, e tutti potevano contribuire a migliorare il modo di lavorare.

Il Toyota Production System si basa su due pilastri: uno è il Jidoka di Saiichi Toyoda ("non siamo qui per produrre difetti") e l'altro è il just in time di Kiichiro Toyoda. Non si tratta quindi del sistema produttivo di Ohno, ma del sistema produttivo Toyota.

Durante la guerra, la domanda di prodotti tessili si ridusse progressivamente. Così, nel 1943, mi trasferii alla produzione di automobili, come direttore di stabilimento. Nella filatura tessile avevamo ormai raggiunto un punto in cui era difficile raggiungere ulteriori guadagni di produttività.
Ma nella produzione di veicoli da trasporto, ogni intervento che provavamo portava ad aumentare la produttività anche di 3 o addirittura 5 volte. Ci accorgemmo che potevamo produrre veicoli di fatto con lo stesso sistema produttivo che avevamo messo a punto per le filature tessili.

Il Giappone però era in guerra e dovemmo convertire le nostre fabbriche in produzioni belliche. Una produceva sistemi di raffreddamento dell'olio degli aeroplani. Un'altra produceva collettori di scarico sempre per aeroplani. L'obiettivo era aumentare la produzione al fine di supportare gli sforzi bellici e noi ci concentravamo sul raggiungimento degli obiettivi di volume che ci venivano dati. Mi trasferii alla fabbrica di Toyota Motor di Koromo (ora Honsha) nel febbraio 1945 e fu mentre ero lì che la guerra finì.

Dopo la guerra, divenni responsabile dell'assemblaggio nello stabilimento di Koromo (Honsha). Molti colleghi pensavano che avremmo dovuto esternalizzare a terzisti a basso costo le produzione di componenti caratterizzate da piccoli volumi produttivi, e invece assemblare e produrre internamente quelle a grandi volumi, un po' come facevano i produttori di biciclette. Essi pensavano che avremmo potuto produrre per i mercati esteri vetture assemblate in parte con componenti realizzate da terzisti. Io la pensavo esattamente all'opposto. E insistei perché producessimo internamente le componenti caratterizzate da piccoli volumi produttivi e comprassimo invece all'esterno le parti a grandi volumi. Avevo capito che produrre internamente le componenti a maggiore costo unitario ci avrebbe obbligato a effettuare miglioramenti kaizen e a ridurre i costi. Inoltre, avremmo potuto migliorare il just in time internamente.

Subito dopo la guerra, Kiichiro Toyoda ci lanciò la sfida di riuscire a uguagliare e superare in 3 anni la produttività degli stabilimenti automobilistici americani. Nell'industria tessile, già nel 1935 avevamo valutato che la produttività tedesca era tre volte maggiore della nostra e che quella americana era tre volte quella tedesca. Sulla base di queste ed altre valutazioni, stimammo che i produttori auto americani erano circa 10 volte più produttivi di noi.
Tale differenziale di produttività era troppo elevato per essere imputabile solo a differenze tecnologiche e impiantistiche. L'organizzazione della produzione e del lavoro erano fattori assai più importanti. Fu così che mi misi a modificare il nostro sistema di produzione, con particolare attenzione al livellamento della produzione, alla standardizzazione del lavoro e all'ottimizzazione dei layout di fabbrica.

Ci dedicammo anima e corpo ad aumentare l'efficienza produttiva tra il 1945 e il 1950. Migliorammo la produttività di 5-6 volte fino a raggiungere un output di 1.000 veicoli commerciali al mese.
Sfortunatamente, non riuscimmo a vendere tutti quei veicoli e nel 1950 ce ne ritrovammo un gran numero a magazzino, invenduti. A quel punto, Toyota era sull'orlo del baratro.

Per superare la crisi, il management annunciò un piano di ristrutturazione che implicava centinaia di licenziamenti, il che determinò una lunga e dolorosa vertenza sindacale. Fu un momento estremamente difficile. Ma non era il primo in cui Toyota si era trovata in grande difficoltà a causa di sovrapproduzione, invenduti e scorte. Già prima della guerra ci si era ritrovati con una montagna di veicoli invenduti a magazzino, e in quel caso era stata la domanda militare a tenerci a galla.
La lezione che imparammo dalla crisi del 1950 fu che migliorare l'efficienza e aumentare la produttività può essere inutile. Aumentare la produttività e ridurre i costi non serve a nulla se non si focalizza e si limita la produzione su dove va il mercato, su ciò che i clienti vogliono, nella quantità, nella qualità e nei tempi da essi richiesti

Si tratta di un brano particolarmente significativo e illuminante riletto oltre 60 anni dopo nel contesto delle sfide che le imprese italiane, in particolare le medio-piccole, devono affrontare.

Anche in Italia oggi molti, se non tutti, danno per scontato che la produzione industriale non sia più possibile. La nostra produttività è bassa e i nostri salari, ancorché insoddisfacenti per chi li percepisce, troppo elevati per competere con la Cina. L'unica soluzione che abbiamo a disposizione è, attraverso l'approccio lean, aumentare la produttività e collegare ad essa i salari.

Ohno, ancorché laureato in ingegneria, parte dal basso e inizia la propria carriera come caporeparto. È l'esperienza nel gemba, insieme a capacità di analisi e di applicazione di metodi complessi, che gli consente di comprendere i differenziali di produttività, di analizzarne le cause e di focalizzarsi su come colmare tali gap. L'ibridazione di conoscenza formale (che viene dai programmi di apprendimento, di formazione istituzionale) e conoscenza informale (il sapere tacito che si sviluppa dall'osservazione e dal contatto diretto con la realtà) contraddistinguono il percorso di tutti gli uomini di azienda che hanno lasciato un segno nella storia del management. Anche i nostri imprenditori e il nostro management, soprattutto nelle imprese medio-piccole, non possono sfuggire a questa legge. Non possono pensare che, come in passato, l'esperienza e il lavoro duro bastino. Ma non possono neppure pensare, come spesso accade nelle nuove generazioni, che la conoscenza e la competenza si possano acquisire a prescindere dal confronto con i problemi di tutti i giorni.

Ohno evidenzia anche l'importanza di non fidarsi delle abilità personali degli operai e degli altri operatori aziendali. A volte qualche persona particolarmente brillante può fare "il miracolo" e la bravura dei singoli spesso porta a risultati che però, di solito, non sono sostenibili nel lungo periodo, soprattutto laddove mercati e tecnologie cambiano velocemente. Anche qui, la lezione che traiamo per le nostre imprese è che quello che altrove ho definito l'approccio "alla garibaldina", ma che più in generale possiamo definire il sistema di lavoro artigianale (contrapposto a quello basato sull'applicazione del metodo scientifico), non basta più. È necessario cambiare mentalità e riconcettualizzare la standardizzazione del lavoro, anche di quello ingegneristico e manageriale, in modo che tutti operino nel modo migliore conosciuto, e tutti possano contribuire a migliorare tale modo di lavorare.

Quando Ohno sottolinea che il sistema produttivo è di Saiichi e Kiichiro Toyoda e non di Ohno ci ricorda che la modestia è una virtù fondamentale del lavorare in azienda e che le aziende si reggono su un rapporto saldo e duraturo tra proprietà e management. Anche in questo caso, molte nostre imprese, magari impegnate nelle fasi di successione imprenditoriale, o già giunte alla seconda o terza generazione, non dovrebbero dimenticare le loro origini e il rapporto con i loro fondatori e ispiratori.

La caduta della domanda nel settore tessile e gli eventi bellici portarono Toyota a cambiare la propria visione e la propria missione: si passò dal tessile all'automotive sia perché le opportunità di mercato erano maggiori, sia perché gli incrementi di produttività, e i benefici dall'applicazione di sforzi per raggiungerli, erano ormai marginali nel settore tessile, sia perché il sistema produttivo e di management che Toyota stava mettendo a punto si potevano applicare anche in settori diversi. Si tratta di una lezione formidabile per le nostre imprese in questa fase di crisi, che devono mettere in discussione il mestiere finora svolto alla luce delle opportunità di mercato e dell'evoluzione tecnologica e devono capire se hanno le risorse, le capacità e gli strumenti per migliorare la produttività. Le tecniche di Hoshin Kanri da un lato e gli altri lean tools dall'altro sono strumenti potenti per effettuare questo esercizio.

Analogamente, per quanto riguarda il posizionamento verticale sulla filiera e le scelte di make or buy, il racconto di Ohno è illuminante; la scelta della "high road", cioè della strada difficile e in controtendenza rispetto alle convinzioni generali è un altro aspetto importante dell'approccio lean: fare le cose che gli altri non riescono a fare, trattare i problemi come "tesori" e opportunità da valorizzare e che esistono per essere risolti, è la chiave per la creazione di differenziali competitivi rispetto ai concorrenti, che il mercato non può non valorizzare. Anche per le nostre imprese, che a volte pensano di poter sopravvivere come semplici intermediari tra fornitura e canali distributivi, l'esempio di Ohno può essere utile.

Il fatto che Kiichiro Toyoda lanciò la sfida, che pareva impossibile, di riuscire a uguagliare e superare in 3 anni la produttività degli stabilimenti automobilistici americani, pur in presenza di un gap di produttività di 10 volte, è un'altra fonte di riflessione per le imprese italiane. Da un lato, dimostra che non esiste mai sfida troppo grande da non essere raggiungibile con risorse adeguate, energia, determinazione e soprattutto metodo e intelligenza; dall'altro essa dimostra che è necessario porsi obiettivi ambiziosi e che il piccolo cabotaggio magari assicura la sopravvivenza nel breve termine ma conduce a rischi nel lungo periodo.

Sempre a tale riguardo, è illuminante la convinzione maturata già nell'immediato secondo dopoguerra che attrezzature, macchinari e impianti non erano la chiave per il successo di mercato, ma che l'organizzazione della produzione e del lavoro erano fattori assai più importanti. E lo sviluppo del sistema di produzione e management lean pagò con incrementi di produttività di 5-6 volte.

Ma ancora più importante è come Toyota affrontò la crisi del 1950. Nel racconto di Ohno, i problemi che Toyota affrontò sembrano molto simili a quelli affrontati attualmente da molte imprese italiane: sovrapproduzione, accumulo di invenduto per calo di domanda, difficoltà a flessibilizzare verso il basso i volumi e a fare destocking, inaridimento dei cash flow e crisi finanziaria da sovraesposizione debitoria, licenziamenti, vertenze sindacali. Anche Toyota, a quel punto, era sull'orlo del baratro. Ma la presa di responsabilità del vertice, le decisioni dolorose ma improcrastinabili, la tempestività degli interventi e la determinazione di tutta l'azienda a fare meglio consentirono a Toyota di uscirne, più forte di prima.

Straordinariamente calzante è poi la riflessione di Ohno sulla lezione che la crisi impartì a Toyota: "migliorare l'efficienza e aumentare la produttività può essere inutile. Aumentare la produttività e ridurre i costi non serve a nulla se non si focalizza e si limita la produzione su dove va il mercato, su ciò che i clienti vogliono, nella quantità, nella qualità e nei tempi da essi richiesti". Anche per molte nostre imprese, questo è il momento non tanto e non solo di adottare o rinforzare l'adozione dell'approccio lean per ridurre i costi. Questo è invece il momento di riflettere su qual è il valore che l'azienda produce, su chi sono i clienti, su quali sono i loro bisogni, su quale sia il modo più appropriato per servirli al meglio. Come direbbe Jim Womack: "purpose first".

E proprio Jim Womack, fondatore e presidente del Lean Enterprise Institute di Boston, e coautore di The machine that changed the world, Lean Thinking, e Lean Solutions, sarà uno dei keynote speakers del Lean Society Summit, organizzato dal CUOA Lean Enterprise Center, il solo centro italiano ufficialmente affiliato a LEI e al Lean Global Network, che si terrà a Vicenza, il prossimo 11 e 12 novembre.

(L'articolo continua sotto al box in cui ti segnaliamo che alla collana di libri QualitiAmo si è aggiunto un nuovo titolo).

LA COLLANA DEI LIBRI DI QUALITIAMO

"La nuova ISO 9001:2015 per riorganizzare, finalmente, l'azienda per processi" - Si aggiunge alla collana dei libri di QualitiAmo il primo testo che svela i segreti della futura norma.
Dalla teoria alla pratica: il secondo lavoro di Stefania Cordiani e Paolo Ruffatti spiega come migliorare la vostra organizzazione applicando la nuova norma attraverso i suggerimenti del loro primo libro
(Vai all'articolo che descrive il nuovo libro)

"Organizzazione per processi e pensiero snello - Le PMI alla conquista del mercato" - Da una collaborazione nata sulle nostre pagine, un libro per far uscire le PMI dalla crisi.
L’ideatrice di QualitiAmo e una delle sue firme storiche spiegano come usare con efficacia la Qualità.
(Vai all'articolo che descrive il primo libro)

Strutturato sul modello dei Lean Summit organizzati dal Lean Enterprise Institute negli USA, l'incontro è destinato a tutti gli operatori aziendali che ritengono che gli insegnamenti del Lean Movement e i principi del Toyota Production System possano rappresentare una guida al superamento della crisi e al miglioramento della qualità, della produttività e dell'efficienza nel mutato scenario competitivo.

Il Lean Society Summit è un'occasione unica per apprendere confrontandosi con le più significative esperienze nazionali in termini di applicazione di lean tools e per comprendere l'evoluzione del lean movement e le sue future applicazioni non solo in campo industriale, ma anche nel campo dei servizi e non solo nel campo produttivo, ma anche nel campo dell'innovazione e dello sviluppo prodotti, della logistica e della distribuzione e della sostenibilità nell'ottica del lean & green.

(Fonte: Cuoa Space)

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