LA QUALITA' TOTALE IN FIAT
Salvatore Loiacono - OmniAuto
La Qualità Totale spiegata da una delle più importanti aziende italiane.
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Il concetto di “qualità totale” è un po' una chimera per un prodotto complesso come l'automobile. Quando si parla di un oggetto caratterizzato da mille sfaccettature è come pretendere la quadratura del cerchio o il moto perpetuo: ci si può avvicinare all'infinito, ma l'obiettivo non sarà mai raggiunto. Eppure, qualcuno continua a provarci.
In Italia la “qualità totale” è diventata argomento di discussione a partire dalla metà degli anni '70. All'epoca ci si accorse che era necessaria una decisa sterzata al riguardo in seguito a varie prese di coscienza sui vari modelli di produzione nazionale. La concorrenza, bisogna dirlo, non c'entrava ancora: si è ben lontani dagli exploit commerciali che in poco più di un decennio porteranno alla ribalta le case tedesche e qualche marchio giapponese. In questo caso qualcuno si era reso conto che il periodo caldo che l'industria dell'auto stava attraversando condizionava materialmente la qualità dei prodotti finiti.
Per tutto il decennio, infatti, il settore industriale divenne simile ad un campo di battaglia. La contrapposizione tra dirigenze e sindacati esondò dagli abituali sedi e invase le linee di montaggio, i magazzini ed ogni altro centimetro libero degli ambienti di produzione. I padiglioni industriali si erano trasformati in enormi sedi in cui il tema sociale malcelava la mera propaganda politica e gli animi delle maestranze erano pervasi da dottrine che avrebbero condotto dappertutto meno che alla soluzione del problema. Il tutto si riversò irrimediabilmente su ogni veicolo prodotto. Si era all'assurdo che venivano consegnate vetture palesemente malfunzionanti, già afflitte da fenomeni di corrosione o, addirittura, con “varia minuteria” sparsa nelle cavità dei lamierati al solo scopo di accrescere la rumorosità interna.
Nel periodo tra il 1975 e il 1981 si raggiunse il “punto di minimo” della produzione nazionale: Fiat, Innocenti e Alfa Romeo sembravano condannate. Le vetture erano malcostruite, poco affidabili e vendute in perdita (emblematico il caso dell'Alfa Romeo che perdeva due milioni di Lire su ogni Alfasud commercializzata), fin quando qualcuno a Torino non inventò il concetto della “qualità globale”.
I tempi stavano cambiando ed una profonda rivoluzione delle metodologie produttive e degli ambienti di lavoro avrebbero contribuito ad una risoluzione del problema. Il primo passo si chiamò “robogate”, un braccio meccanico che effettuava le saldature della scocca. Fu applicato per la prima volta alla linea di montaggio della Fiat Ritmo, nel 1978. Ma fu con la Fiat Uno del 1983 che ci fu il vero cambiamento: scocca e propulsore erano assemblati quasi interamente da braccia meccaniche (i famosi motori “Fire”), limitando l'intervento dell'uomo ad operazioni particolari di montaggio, di finitura e di supervisione dei processi automatici. Fu una vera rivoluzione silenziosa. Gli standard qualitativi, in Fiat, subirono una forte impennata verso l'alto, ma alcune pecche nella progettazione limitarono drasticamente il risultato finale. La Uno, la prima Fiat prodotta con un occhio attento alla qualità, seppur forte di molte peculiarità, pagava il prezzo di alcune ingenuità progettuali come la plancia costruita da un guazzabuglio di componenti accoppiati con ben poca precisione.
L'idea della qualità totale, tuttavia, non fu abbandonata in quel di Corso Marconi, al punto da essere riesumata almeno per altre due generazioni di Fiat (e delle derivate Lancia e Alfa Romeo): nel '87 fu la volta della Tipo e nel 1993 della Punto. Con quest'ultima, forse, l'obiettivo fu centrato per la prima volta. Scomparirono del tutto i problemi di corrosione dei lamierati, la meccanica era semplice e tendenzialmente affidabile e l'abitacolo, seppur caratterizzato da una plancia particolarmente “vezzosa”, fu progettato con grande razionalità. Ma rimase un caso unico.
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Le Bravo/Brava e Marea ne affossarono nuovamente l'immagine. Questa volta non era un problema di difettosità effettiva (anche se non si era minimamente vicini alla perfezione), piuttosto di percezione. Le tinte, gli accostamenti cromatici, i trattamenti superficiali non riuscirono a soddisfare le aspettative. Ancor più “mutilata” è stata la successiva Stilo. Auto figlia di un attento studio industriale, costruita a dovere e realizzata con cura, la Stilo ha pagato il prezzo di un design inadeguato, una sorta di compromesso tra la corrente latina e quella teutonica che ha scontentato tutti. Ma con l'incompresa Stilo la Fiat raggiunse il traguardo che per oltre un ventennio ha inseguito, al punto che da un modello bistrattato sta nascendo una nuova generazione di medie dalle ottime doti: la Nuova Bravo, la Lancia Delta e la futura Alfa Romeo 149.
Nel frattempo, bisogna riconoscerlo, è cambiato non solo il modo di fare auto (in Fiat), ma soprattutto è cambiato il Bel Paese. Lentamente, anche nello Stivale, si sono spente le ideologie, le stesse ideologie che minavano irreparabilmente la stabilità della società. Il tutto si è tradotto in una maggiore efficacia dei tavoli di discussione e gli ambienti di lavoro ne hanno giovato: sono diventati più salubri e accoglienti.
Le nuove tecnologie hanno permesso di ridurre di molto l'aggravio sulle maestranze che, oggi, godono di una migliore considerazione anche rispetto al recente passato ed hanno acquisito una nuova coscienza collettiva. E questo, forse, più di ogni altro aspetto ha permesso di avvicinarsi a quell'idea di qualità tanto sospirata: si potranno fare mille progetti, ma in fin dei conti un palazzo si reggerà sempre e comunque dalle fondamenta.
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