LA COMUNICAZIONE, L'ASSERTIVITA' E L'INFLUENZA DEL FATTORE UMANO SULL'OUTPUT NON CONFORME

Il nostro essere persone influenza l'output del nostro lavoro. Ce lo racconta Danilo Digennaro, responsabile qualità, che ci ha inviato questo articolo per spiegarci come. Lo ringraziamo e vi sottoponiamo volentieri il testo. Buona lettura!

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di Danilo Digennaro

La comunicazione verbale, intesa come sistema orale per lo scambio di informazioni all’interno di un processo, continua a mantenere un ruolo di preminenza nella moderna azienda, nonostante il proliferare dei molteplici mezzi di comunicazione. In quella che oggi è definita da molti sociologi società dell’informazione, si sono moltiplicati e parcellizzati in maniera esponenziale gli strumenti di comunicazione degli input e degli output, le interazioni tra processi, le commistioni tra piano umano e piano informatico; gli stessi fattori del contesto economico e sociale (pandemie, guerre, mercati, ecc.) sono ormai di difficile lettura e interpretazione. Eppure, in questo panorama eterogeneo, in cui numerosi sono gli elementi in grado di influenzare la comunicazione, è palese come il fattore umano – qui inteso come interazione tra persone - sia ancora oggi elemento centrale del processo.

Sembra scontato riconoscere l’importanza della comunicazione all’interno delle aziende eppure, la stessa normativa ISO 9001:2015 non tralascia questo aspetto: (punto 7.4) "L'organizzazione deve determinare le comunicazioni interne ed esterne pertinenti al sistema di gestione per la qualità, includendo: a) cosa vuole comunicare; b) quando comunicare; c) con chi comunicare; d) come comunicare".

Il focus della normativa è ovviamente mirato alle comunicazioni pertinenti al sistema di gestione per la qualità ma, estendendo il ragionamento, si può riscoprire l’importanza della metodologia comunicativa all’interno di tutto il sistema. Ebbene, è noto che i tipici atteggiamenti che possono influenzare l’errata comunicazione tra persone siano quelli dell’aggressività e della passività. L’atteggiamento di aggressività è certamente quello più noto e tossico, foriero dei più evidenti disagi relazionali: il capo che ad ogni domanda aggredisce l’interlocutore, che ritiene di essere sempre nel giusto, che attribuisce errori o impone comportamenti da tenere è un leader che frena la fluidità della comunicazione tramite l’imposizione di inutili barriere. In tali situazioni viene a mancare la spontaneità della comunicazione, il clima di preoccupazione crea disagi relazionali e in caso di errore la tendenza è quella di incolpare il collega o il processo a monte, se non di nascondere il tutto. Gli errori non sono risolti perché non affrontati, il dubbio stesso resta tale e non può che portare, a propria volta, alla nascita di nuovi errori: il silenzio diventa la migliore metodologia comunicativa e il clima di terrore spegne sul nascere ogni processo di confronto.
Sovente non ci si rende conto che ai medesimi risultati si giunge anche con un atteggiamento di passività. Anzi, questo atteggiamento nasconde più insidie rispetto ad un contesto di aggressività. In quest’ultimo, infatti, pur perdurando un forte livello di stress e di timore reverenziale nei confronti della comunicazione, rimane elevato il livello di performance: gli obiettivi sono ben definiti, il target è chiaro e la strada per raggiungerli è ben tracciata e monitorata dal leader. Di contro, quando ci troviamo a giocare nel campo della passività, godiamo di bassi livelli di stress e anzi tendiamo ad apprezzare l’armonia presenta all’interno del processo sottovalutando i numerosi aspetti negativi:

  • il lavoro non è strutturato per obiettivi ma solo a seconda delle esigenze del caso;
  • non conta tanto la qualità del lavoro ma la quantità (che comunque deve limitarsi ad essere esclusivamente adatta a risolvere il problema);
  • non si lavora per prevenire ma solo per curare;
  • non esiste programmazione né una chiara definizione del proprio percorso di crescita;
  • l’apprendimento e l’aumento delle nostre skill sono lasciati per la maggior parte dei casi a sforzi o interessi personali

Snaturandosi completamente il senso di importanza del lavoro per obiettivi possono crearsi più errori e, quindi, output non conformi, che benefici a causa dello scarso interesse e della scarsa passione con cui ci si approccia al lavoro. In particolare, ad eccezione dei rari casi in cui si sia in grado di lavorare sul proprio pacchetto di competenze, le persone che non sono in grado di stimolarsi autonomamente e che hanno bisogno di incentivi mirati alla performance – cosa del tutto normale all’interno di un processo - non riescono ad esprimere al meglio le proprie capacità e potenzialità e, con il tempo, si inaridiscono e cercano altrove maggiori interessi lavorativi. La passività riesce ad essere più deleteria rispetto all’aggressività soprattutto nelle grandi organizzazioni che tendono, con il tempo, a trasformare il soggetto in mero strumento di esecuzione.

Appare chiaro che entrambi gli atteggiamenti di passività e aggressività debbano lasciare spazio al più giusto e proficuo atteggiamento assertivo. Senza voler ripetere i ben noti benefici dell’assertività (ascolto, autostima, empatia, crescita personale, ecc.) si vuole focalizzare l’attenzione sull’importanza della stessa quale strumento per evitare output non conformi a causa di errori umani frutto di errata comunicazione. Solo quando un soggetto si sente libero di esprimersi e di non subire ritorsioni personali (anche solo emotive) ha il coraggio e la lucidità di alzare la mano e di segnalare di aver commesso un errore; solo quando un soggetto abbia piena fiducia nelle proprie capacità, perché queste sono sia ben accette che coltivate, allora trova il terreno ideale per accrescere la soddisfazione del cliente, migliorare i processi, assicurare la conformità ai requisiti del cliente e non appiattarsi sul lapidario "Abbiamo sempre fatto così"; solo quando si crea la giusta armonia all’interno dei processi è possibile che le relazioni umane siano basate non sulla conflittualità ma sulla costruttività mirante non al tornaconto personale ma al bene del processo e del sistema. Solo l’atteggiamento di apertura mentale può garantire l’ascolto (la comunicazione, del resto, è sempre basata su di un messaggio che parte da una fonte e raggiunge uno o più destinatari) non solo da parte di tutti gli attori del processo e da parte di tutto il sistema ma anche da parte di tutti i top manager, in modo che, quando sia riscontrato un errore, esso venga comunicato, recepito e risolto e non resti sepolto sotto tonnellate di aggressività o passività.

Superfluo continuare a stilare la lista dei numerosi casi di errata comunicazione in grado di evitare failure: è fondamentale che le aziende, anche in momenti economici difficili, abbiano il coraggio di investire sul management aziendale tramite formazione mirata alla crescita dei propri collaboratori e alle modalità di comunicazione. Nei momenti di crisi, purtroppo, i costi formativi sono i primi ad essere sacrificati per il “bene” dell’azienda quando ormai appare chiaro quanto siano fondamentali e imprescindibili per sviluppare al meglio l’assertività del sistema, la sua comunicabilità, la soddisfazione del cliente e la salvaguardia delle parti interessate (operatori, clienti, ecc.) rispetto a quelli che possono essere considerati errori umani frutto di mala o errata comunicazione a causa di atteggiamenti passivi o aggressivi.

Strumenti informatici, ERP, internet, smart working, non hanno messo da parte l’importanza del fattore umano e dell’importanza della comunicazione verbale ma, di contro, sembrano anzi aver accentuato l’importanza della stessa in quanto la diminuzione della quantità ha messo ancora più in risalto la qualità quale capacità di influenzare il fattore umano al fine di evitare output non conformi.

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