LA LEGGENDA DEGLI INCENTIVI

Oggi vi proponiamo un estratto del bel libro di Pietro Trabucchi "Perseverare è umano" che spiega come aumentare la motivazione e la resilienza negli individui e nelle organizzazioni grazie alla lezione che ci fornisce lo sport


incentivo

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(Tratto dal libro: "Perseverare è umano" di Pietro Trabucchi)

Si cercano uomini per viaggio pericoloso, paga minima, freddo tremendo, lunghi mesi di completa oscurità, rischio costante, ritorno in dubbio, onore e riconoscimenti in caso di successo.
(Annuncio pubblicato nel 1914 dall’esploratore britannico Ernest Shackleton per effettuare la traversata a piedi dell’Antartico
)

Furono in cinquemila a rispondere all’annuncio di Shackleton (e ne vennero selezionati ventisette). Eppure la paga era davvero bassa e i rischi enormi.

Non è vero che senza incentivi le persone non trovano motivazioni. Oggi il ricorso indiscriminato alla carota in foggia di bonus, premio di produzione, stock options e ricompense a vario titolo affligge il mondo delle aziende così come quello sportivo. E i risultati sono desolanti.

L’incentivo funziona limitatamente ad alcune circostanze, e non è sempre detto.
Nello sport, il mondo del calcio ne è la riprova: se la motivazione crescesse al pari degli incentivi economici, come si potrebbero spiegare la passività e la rassegnazione con cui la nostra rappresentativa nazionale si è fatta buttare fuori dai mondiali del 2010? Come può accadere che una squadra di sconosciuti semi-dilettanti fra cui un giardiniere e un elettricista in ferie (la Nuova Zelanda) ridicolizzi una compagine di professionisti milionari (l’Italia)?

In realtà Edward Deci nei primissimi anni Settanta aveva messo in guardia il mondo accademico circa i pericoli degli incentivi intesi come la soluzione di tutti i problemi motivazionali. Deci, insieme al collega Richard Ryan, è stato uno dei massimi teorici della motivazione intrinseca. Per mezzo di alcuni esperimenti di psicologia sociale, alcuni dei quali anche divertenti, egli dimostrò che gli incentivi funzionano come motivatori solo a certe condizioni. In un esperimento, per esempio, alcuni soggetti venivano accompagnati in una stanza dove veniva loro chiesto di creare delle figure geometriche con una sorta di lego. Un gruppo riceveva un incentivo per ogni figura realizzata, un altro giocava senza alcuna ricompensa. Non visti, gli sperimentatori raccoglievano dati e misuravano il tempo trascorso dai giocatori impegnati nell’attività.
Entrambi i gruppi ebbero più sessioni di gioco in giorni diversi. Deci notò che il gruppo incentivato, quando a sorpresa in una seduta l’erogazione dell’incentivo venne interrotta, tendeva a impegnarsi per un tempo di gran lunga minore degli altri. Deci concluse che gli incentivi possono motivare solo a breve termine e, se cessano, possono avere effetti controproducenti sulla motivazione.

Invece, quando i soggetti si appassionano all’attività, si impegnano in assenza di incentivi per tempi stabilmente più lunghi. Inoltre, l’uso di ricompense ottiene un miglioramento della prestazione solo in certi tipi di compiti, mentre la peggiora in altri. Tendenzialmente gli incentivi alzano la prestazione in compiti di routine, dove esiste un protocollo consolidato e le cose sono altamente prevedibili. Ma si rivelano addirittura contrari quando si ha a che fare con compiti creativi. La ricompensa infatti restringe il campo di attenzione della persona, che comincia a ragionare a breve termine cercando una soluzione rapida.

L’incentivo forse funzionava meglio nel vecchio mondo del lavoro, dove le persone dovevano svolgere delle mansioni in un ambiente fortemente prescrittivo. Lo chiamo il «modello del raccoglitore di pomodori»: un tipo di attività di routine, molto ben definita, dove non viene richiesta nessuna capacità decisionale o di autogestione. Raccogli quante più cassette è possibile e via!
Oggi queste tipologie di attività vanno scomparendo: il mondo del lavoro è sempre più complesso e privo di soluzioni collaudate. Non è più possibile avere un mansionario universale che prescriva tutti i comportamenti giusti per ogni ruolo. Una certa dose di autonomia decisionale viene richiesta. Questo vale anche per il mondo sportivo. Per esempio (...), nelle spedizioni alpinistiche finalizzate ai record, dove le risorse sono sempre limitate in rapporto alle reali necessità, non si può essere troppo prescrittivi. Il capo spedizione non può permettersi di usare uno stile di leadership autoritario ed esageratamente direttivo, pena il mancato raggiungimento degli obiettivi. Non può più permettersi di dire: «Fai questo, fai quello, metti la tenda a 8200 metri poi spostala più in basso». Non può farlo perché spesso non ha tutte le informazioni in mano. La miglior decisione su dove vada piazzato un campo spesso può assumerla solo l’alpinista che è lì sul luogo e vede le condizioni reali della montagna; il coordinatore al campo base ha più difficoltà perché non è lì. E non può nemmeno imporre le sue decisioni perché le risorse sono troppo limitate, e vanno tutelate non solo come sicurezza personale, ma anche come patrimonio di energie che concorrono alla causa.

Legare un incentivo alla prestazione può essere sensato nel caso del raccoglitore di pomodori che è pagato per ogni cassetta che accumula. Ma nel caso dell’alpinista potrebbe essere pericoloso, potrebbe fargli prendere decisioni sbagliate o affrettate con conseguenze catastrofiche. Inoltre le ricompense diventano controproducenti quando vengono percepite da chi le riceve come perdita di una parte della propria autonomia. La possibilità di autonomia, (...), è uno dei fattori chiave nella motivazione intrinseca. Daniel Pink definisce questo fenomeno «effetto Sawyer». Il nome deriva da un passo del celebre libro di Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer, dove Twain descrive il comportamento di alcuni ricchi signorotti inglesi: «Ci sono ricchi signori in Inghilterra che guidano carrozze con quattro cavalli per trenta o quaranta chilometri ogni giorno in estate perché un simile privilegio costa loro molto denaro. Ma se venisse offerto loro un compenso per questo servizio ciò diventerebbe un lavoro e cesserebbero di farlo».
L’effetto Sawyer ci dice che la motivazione intrinseca può essere azzerata da rinforzi estrinseci, soprattutto se il soggetto percepisce la circostanza come una perdita della propria autonomia. Non è un po’ quello che succede con tanti sportivi quando diventano professionisti, per esempio quando entrano a far parte di un gruppo sportivo militare? Si dice che questi atleti, una volta entrati nel professionismo, si «siedono». Forse oggi capiamo meglio il perché. Il «fuoco dentro» che li spingeva, la motivazione intrinseca, si spegne quando la persona non percepisce più il suo impegno come frutto di una libera scelta.

L’impegno, se monetizzato, perde valore. In effetti, quante persone impegnate nel volontariato continuerebbero l’attività se questa fosse ricompensata con una diaria? Varrebbe la pena fare tanti sacrifici se lo scopo diventano i soldi?

È un peccato che le teorie di Deci e Ryan non siano state considerate come meritavano dal mondo delle organizzazioni e da quello sportivo. Eppure il tipo di economia che si prefigura per il futuro propende per modelli di lavoro sempre più svincolati dalle ricompense economiche e sempre più attenti a gratificare le motivazioni intrinseche dei lavoratori. Ne sono un esempio folgorante i software open source. Oppure pensiamo a Wikipedia, l’enciclopedia che conta 13 milioni di voci in 260 lingue, realizzata totalmente con contributi non retribuiti.

(...)

In tanti contesti ci si impegna allo spasimo senza nessuna prospettiva concreta di visibilità o gratificazioni economiche. Non possiamo capire tutti questi fenomeni se non dismettiamo l’idea che la motivazione sia indotta dagli altri o che provenga dagli incentivi o dalle minacce esterne.

La motivazione viene da dentro. Queste persone sono automotivate. La spinta che le muove si è formata negli anni, è stata costruita lentamente e faticosamente. Non è frutto di una tecnica di persuasione, o di un concitato discorso estemporaneo, come presuntuosamente qualcuno vuole pensare. Nemmeno è frutto del luccicare dei soldi intravisti in fondo alla borsa o della promessa di uscire finalmente dall’anonimato.

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