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Trasformare l’umore in redditività

 
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QualitiAmo - Stefania
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Registrato: 16/09/07 18:37
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MessaggioInviato: Mer Ago 05, 2015 2:22 pm    Oggetto: Trasformare l’umore in redditività Rispondi citando

Due articoli tratti da "la Repubblica"

Un’equazione “perversa” come quella tra felicità e produttività, un convincimento “malato” secondo cui il dipendente infelice equivarrebbe a un disfattista, una pratica “totalitaria” come quella che vede le aziende interferire nella privacy dei lavoratori, si possono comprendere solo in base a un’adeguata prospettiva storica.

Cerchiamo almeno di abbozzarla, dunque, procedendo con ordine.

Se esiste un tema tanto vasto da gettare qualsiasi studioso nello sconforto e quindi nell’infelicità, è appunto quello della felicità. Del resto perché sorprendersi, visto che questo concetto (o meglio, la sua appropriazione) costituisce la meta delle nostre vite?
Presente nelle dottrine morali dell’antichità col nome di “eudemonismo” (dal greco eudaimonìa , “felicità”), l’idea è trattata nella Lettera sulla felicità di Epicuro, per il quale uno stato simile si può raggiungere allontanando il dolore (sia fisico, sia psichico) grazie alla filosofia. Quanto alle grandi religioni, se per il cristianesimo e l’ebraismo la felicità assoluta coincide con la visione di Dio, per il buddismo la sofferenza è sopprimibile mediante la cessazione del desiderio.
Bisognerà però aspettare l’epoca moderna, perché tale nozione ricompaia in un contesto del tutto differente. Abbandonato l’ambito del soggetto, delle sue emozioni e delle sue aspirazioni, la felicità irrompe nel pensiero politico in una forma completamente nuova. Certo, si legge in un saggio di Luisa Muraro, la consapevolezza di un intricato nodo tra politica e felicità è cosa antica, che risale a Platone. Ma la stessa Muraro ribadisce l’esistenza di una frattura creatasi, tra Seicento e Settecento, con l’utilitarismo e soprattutto con l’empirismo inglese (si veda anche Salvatore Natoli, La felicità , Feltrinelli 2003).

Contemporaneo alla nascita della società industriale, questo movimento si collega all’edonismo dell’età classica, sostenendo che la felicità individuale tenderebbe per sua natura a irradiarsi nel sociale. Simile concezione diventerà ricorrente nel pensiero anglosassone e americano più che in quello europeo (dove andrà ad ogni modo segnalato il saggio che Ludovico Muratori scrisse nel 1749 con il titolo Della pubblica felicità ).
Da ciò deriva il fatto che la Costituzione degli Usa iscriva la ricerca della felicità tra i diritti naturali e inalienabili dell’essere umano.
E qui arriviamo al cuore del discorso. Anche la Costituzione italiana stabilisce il “pieno sviluppo della persona umana” (articolo 3), affermando che ciascuno può realizzare i propri desideri nel rispetto per la vita privata. Nel decretare il diritto all’identità personale (anch’esso sancito tra i diritti inviolabili della Costituzione, art. 2), viene così respinta ogni imposizione atta a trasferire sulla persona modelli prefabbricati, standardizzati, predisposti.

Come è possibile coniugare tutto ciò con le ultime pretese di molte aziende private? Come accettare un figura quale il Chief Happiness Officer?
Come tollerare la convinzione che la felicità dell’impiegato corrisponda a un capitale dell’azienda? Come ridurre il fine della nostra vita a indice di redditività?

Più che Montale e il suo celebre motto (“Vissi al cinque per cento”), dovremmo tornare a qualche anno fa, quando fu dimostrato che la produzione di latte nelle mucche che ascoltano musica sinfonica aumenta del 7,5 per cento.

Il medico e psichiatra Rolando Benenzon ha ricordato la battuta secondo cui i bovini amerebbero Mozart. Perché non farlo ascoltare anche ai lavoratori dipendenti?


Condannati alla felicità

Il segreto per trovare e tenersi stretto un posto di lavoro? I muscoli del sorriso, quelli che sarà sempre più utile esibire per compiacere l’occhio vigile dei responsabili delle risorse umane. Costoro, infatti, sono sempre più inclini a pretendere la felicità dai dipendenti.

Lo denuncia il saggio The Happiness Industry: how the government and big business sold us well-being (ed. Verso) che il sociologo inglese Wiliam Davies, docente alla Goldsmiths University di Londra, ha appena pubblicato. «Le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici — attraverso corsi motivazionali, pasti e massaggi gratis in ufficio, gare di pittura o canto tra i dipendenti, che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio», dice Davies.

E per i guastafeste non c’è futuro, basta pensare a uno dei guru del nuovo approccio alla felicità se non indotta almeno “fortemente raccomandata”: Tony Hsieh, ad di Zappos, colosso mondiale della vendita di scarpe online . «Hsieh invita le aziende a identificare il 10 per cento degli impiegati meno favorevoli alle iniziative pro-felicità, come esercizi di team building e giochi, e a licenziarli. Per Hsieh in questo modo si trasformerebbe il restante 90 per cento dei dipendenti in lavoratori super motivati», spiega Davies.

Ma perché la felicità è diventata così importante per le aziende, che oggi scimmiottando Google si dotano del Chief Happiness Officer , figura che ricorda “Heinz il galvanizzatoren” creato da Bonvi per le sue Sturmtruppen? «Oggi la felicità del dipendente è vista sempre più come capitale dell’azienda e leva di profitto: studi come quello pubblicato nel 2008 da Oswald, Proto e Sgroi dell’Università di Warwick indicano che la felicità dei dipendenti può aumentarne la produttività fino al 12 per cento. E può ridurre assenteismo e giorni di malattia», ancora Davies.

Ma l’equazione tra felicità e produttività è controversa. Simulare felicità per quieto vivere aziendale può anche causare depressione e, alla lunga, problemi cardiovascolari, come indicano le ricerche dello psicologo tedesco Dieter Zapf. E poi c’è uno strano paradosso: «Da un lato gli studiosi di organizzazione aziendale ci dicono che la produttività aumenta se le risorse umane sono coinvolte e felici. Dall’altro lato i macro-economisti plaudono alla flessibilità e ne chiedono sempre di più.

Ma la flessibilità crea un lavoratore poco coinvolto sul quale le imprese non hanno interesse ad investire», argomenta Emilio Reyneri, docente di Sociologo del lavoro all’Università Milano- Bicocca. «Se consideriamo l’Italia, l’andamento piatto della produttività dal 1995 a oggi può essere attribuito non solo alla mancanza di investimento in ricerca, ma anche alla precarizzazione del lavoro. Una risposta semplicistica, tanto invitante quanto fuorviante, a questo dilemma è puntare su una strada psicologica, e non materiale, verso la motivazione: convincere il dipendente ad essere soddisfatto senza alzargli stipendio né garanzie».

Insistere sulla felicità permette inoltre un allettante scarico di responsabilità: l’insoddisfazione verrà vista non più come colpa del management, ma solo del singolo e della sua psiche. Il problema è che la psiche non stacca mai: «L’azienda vuole che il dipendente sia sano e felice. Le attività che il dipendente svolge nel suo tempo libero, come alimentazione, sport, lettura, relazioni sociali, giocano un ruolo notevole nell’ottenere questo risultato. Ergo, oggi le aziende vogliono avere voce in capitolo sull’uso che i dipendenti fanno della loro dimensione privata», spiega ancora Davies.
Emblematico il caso della multinazionale svedese Scania, che produce veicoli industriali e ha introdotto il concetto di “dipendente 24 ore su 24”. «Scania raccomanda ai suoi lavoratori uno stile di vita morigerato e salutare anche nel loro tempo libero. Nel saggio Heal- thy Organizations i sociologi Mikael Holmqvist e Christian Maravelles riportano che, per i responsabili HR di Scania, è importante «avere cura degli impiegati sia sul posto di lavoro sia fuori. Cerchiamo di aiutarli a vivere in modo più sano. Il nostro interesse per loro non finisce quando lasciano il lavoro», racconta il sociologo Carl Cederström, docente di organizzazione all’Università di Stoccolma.

L’azienda che vuole espandersi occupando tutto il tempo dell’impiegato può farlo solo quanto più si fa sfumato il confine tra lavoro e vita privata. Guru come Ricardo Semler, autore del bestseller The seven day weekend , raccomandano ai manager di «far sembrare il lavoro aziendale un piacevole intrattenimento ». Ecco perché «gli uffici delle multinazionali più ambite hanno l’aspetto seducente e colorato del parco giochi», aggiunge Cederström. «Ma rimane pur sempre lavoro: l’ufficio non può diventare vero tempo libero, solo trasformarsi nella sua straniante imitazione».
Pionieri di questo approccio in Italia sono stati gli uffici aperti dai colossi del web, dotati di arredi fantasiosi che ammaliano i media ma suscitano perplessità negli osservatori più acuti, come il sociologo del lavoro Domenico De Masi: «L’Italia stenta a imitare gli Stati Uniti nelle cose importanti ma è rapida nel mutuarne le banalità. Le
Human Relations e l’interesse dell’azienda per la felicità del lavoratore maturarono negli Usa dagli anni Trenta in funzione della motivazione degli operai. Gli studi di Elton Mayo alla Western Electric di Chicago avevano dimostrato che qualità e quantità del rendimento non dipendevano tanto dal salario quanto dalla motivazione e dallo spirito di gruppo».

E in Italia? «Qui la spinta si intrecciò con lo spirito di solidarietà e produsse casi esemplari come la Valdagno di Marzotto: una città costruita ex novo, in cui operai e dirigenti convivevano accanto alla fabbrica. Ancora più avanti si spinse Adriano Olivetti creando a Ivrea e Pozzuoli esempi insuperati di organizzazione della fabbrica e della città basata sul concetto di “comunità” dove efficienza, bellezza, democrazia concorrevano a creare una cultura del lavoro politicamente solidale, esteticamente raffinata, antropologicamente felice.
Così lontano dai luna park di Google, paesi dei Balocchi con giostre e sorrisi in bella mostra e invisibili some.

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Stefania - Staff di QualitiAmo

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Guerra
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MessaggioInviato: Mer Ago 05, 2015 2:33 pm    Oggetto: Rispondi citando

Costruirsi un cappio di un bel colore e stringerselo al collo.
La felicità diviene davvero tale se la sua ricerca è disinteressata, altrimenti è solo uno strumento per creare zombie che vivono per lavorare e produrre.
Vogliono davvero convincerci che è la strada giusta da percorrere?
Sarei curioso di vedere le statistiche dei suicidi tra i lavoratori in Svezia.
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MessaggioInviato: Mer Ago 05, 2015 2:35 pm    Oggetto: Rispondi citando

Questi sono i tuoi articoli, Guerra, ti aspettavo come una pioggia dopo una settimana di afa a 40°..
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Guerra
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MessaggioInviato: Mer Ago 05, 2015 2:38 pm    Oggetto: Rispondi citando

Dovrei collezionarli.
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rhox
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MessaggioInviato: Mer Ago 05, 2015 2:48 pm    Oggetto: Rispondi citando

ma poi bellissimo che per incentivare la felicità.. si licenziano i lavoratori!! Very Happy
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Yoda


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MessaggioInviato: Mer Ago 05, 2015 4:29 pm    Oggetto: Rispondi citando

Gia nel 2007 pubblicai un libro per gli studi tecnici professionali in cui riportavo un paio di articoli che mi avevano colpito molto di due grossi economisti italiani che parlavano di questo tema e mettevano in luce quello che sottolineava il "fordismo". Questa visione predicava che l'uomo deve avere due temi nella giornata: 1) quello della "pena ed alinenazione" da scontare in fabbrica /ufficio per ricavarne ricchezza e 2) un secondo tempo dopo le 5,30 di pomeriggio per vivere la propria vita sociale (divertimento incontri con gli amici ecc ecc.), lontanissimo dal concetto di Adriano Olivetti.

Oggi la crisi ha fatto prevalere addirittura i concetti validi ai tempi di pre-fordismo e cioè quello dei ragazzini di 11-12 anni che lavoravano 14 ore al giorno pagati una miseria nelle tintorie delle tessiture inglesi del 1850 che spingevano dentro ai bagni coloranti le matasse di lana a mani nude e che avevano le prime falangi delle loro dita corrose fino all'osso dagli acidi.

Ho visto con i miei occhi lo schiavismo, per lo più cinese, tamponare le inefficienze di tanti imprenditori italiani negli anni attorno al 2005, ma anche quello dei poveri migranti che OGGI muoiono sotto il sole, a raccogliere pomidoro nelle cmpagne del nostro sud (avrete sentito tutti parlare di caporalato).

Nel libro citato parlavo del ritorno del "liberismo", quello per intenderci che mira a ottenere "l'uomo macchina" e che ha messo in ginocchio la Grecia in nome del "Moloch denaro o meglio usura legale" ...i prossimi a cadere sotto il suo mirino saremo noi!
Stiamo freschi vero?
ciao
Paolo
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Guerra
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MessaggioInviato: Mer Ago 05, 2015 4:34 pm    Oggetto: Rispondi citando

Caro Paolo,
allora nessuno si salverà. Cadranno tutti uno dopo l'altro per motivi diversi.
E' un treno che corre verso il buio e il vuoto.
Ma io nutro speranza.
Mangia una fettina di Sacher e torna ad essere più ottimista Cool
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